La maggior parte dei sogni, al mattino, svaniscono. Al pari delle misteriose ombre notturne, semplicemente, a un certo punto scompaiono. Altri, invece, non se ne vanno alla prima luce dell’alba, eclissandosi nel preciso istante in cui gli occhi si schiudono. Sopravvivono alla fantasia, la superano e, in alcuni casi, la migliorano pure. Sono reali, tangibili. Sono veri.
GRANDI SPERANZE – Nel 2014 Giulio Ciccone era un Under23 di belle speranze, indiscusso talento e notevoli aspettative. Era uno di quelli che, in gruppo, notavi per forza: ciuffo ribelle, sguardo deciso, attitudine per le parti alte degli ordini d’arrivo. Era un puledro di razza scalpitante, con un bel 20 anni – considerando che è nato il 20 dicembre, anche qualcosa meno – impresso sulla carta d’identità e tanta voglia di dimostrare il proprio valore. Era un vincente, insomma. Uno di quelli che – pensi – di strada ne farà. Due stagioni fa l’abruzzese di Chieti difendeva i colori del Team Colpack e vestiva, per la prima volta nella sua vita, la Maglia Azzurra. Il debutto assoluto con la divisa dell’Italia era stato di peso e prestigio, nella gara-simbolo della sua categoria: il Tour de l’Avenir. Un autentico sancta sanctorum delle due ruote, dove solamente il gotha del ciclismo giovanile può aspirare di schierarsi al via. Al termine di quella sfida, interrogato sulle aspirazioni riguardanti il futuro, aveva detto: “Le corse dei miei sogni sono il Giro d’Italia e la Liegi Bastogne Liegi. Sono diverse, ma mi piacciono entrambe.”
RITORNO AL PRESENTE – Ad oggi, si può dire che parte del lavoro sia stato fatto. Ammantato di nero-verde Bardiani-Csf il neopro classe 1994 la fiducia concessa da chi credeva – e crede in lui – l’ha ripagata con la moneta più pesante. E con le braccia levate in direzione del cielo. Nella decima tappa del 99esimo Giro d’Italia – la Campi Bisenzio (Fi) – Sestola (Mo) di 219 km – si infila nella fuga giusta poi, quando rimane nell’avanscoperta insieme al compagno Stefano Pirazzi e all’iconico Damiano Cunego (Nippo Vini Fantini, trionfatore del 2004), agguanta al volo l’occasione buona: allunga in discesa, resiste sulla successiva salita e, poi, festeggia in solitaria la prima perla tra i professionisti.
“Non si poteva chiedere di meglio. E’ stata forse la giornata più bella della mia vita e spero che ce ne saranno delle altre.” Il ricordo è ancora vivido, gli occhi nuovamente umidi, mentre Ciccone riporta la mente all’esaltante successo. L’immagine traspare chiara, dalle sue parole. Come in un film – visto e rivisto, ma che si ha voglia di rivedere ancora – ecco comparire la linea bianca, ormai vicinissima. Ed ecco arrivare un ragazzo, che si guarda indietro e poi, quasi incredulo, lancia un’altra occhiata. Ma, dietro, non c’è nessuno, mentre davanti c’è un traguardo che lo aspetta per essere espugnato. “Però è stata una sorpresa, sia per me che per tutti e, di sicuro, bisogna continuare a lavorare più di prima e cercare di ottenere altri buoni risultati.” L’umiltà, che l’ha sempre contraddistinto, gli ha permesso di farsi largo tra i grandi.
IL PASSATO E’ IL FUTURO – Ogni persona è il risultato di quella che è stata. Il passato è la base, imprescindibile, su cui costruire il futuro. Quel Tour de l’Avenir 2014, Ciccone l’aveva concluso a bordo dell’ambulanza. Aveva forzato, nella discesa dalla Croix de Fer – ultima tappa dell’appuntamento transalpino di Coppa delle Nazioni – , ed era finito contro un albero. Al di là dell’indiscusso dolore e delusione, con quell’azione Ciccone aveva dimostrato di essere un corridore. E un lottatore. Ci aveva messo l’anima e il cuore, in quella discesa. Ci aveva messo – letteralmente – persino la faccia. Ma, siccome ai meritevoli il Destino quello che toglie, generalmente, restituisce, grazie altresì a una discesa l’atleta classe 1994 si è messo in tasca la rivincita. “A parte quell’Avenir in cui ho preso una pianta, per il resto in discesa mi sono sempre difeso bene – spiega – non rischio. Solo quando ce né bisogno.”
La perla numero uno è arrivata, ma gli asfalti da percorrere sono ancora tanti. E lunghi. “La prima cosa che si impara da professionista credo sia la sofferenza. Cambiano il ritmo, i chilometri, le ore in sella. Ti abitui dipiù alla fatica. Il primo Giro d’Italia per un neopro? E’ duro, duro, duro. Sono delle esperienze e delle distanze mai fatte. La gara più lunga che avevo affrontato era di otto tappe; arrivare a ventuno è tutta un’altra cosa. E’ tutto nuovo. Ogni giorno ci sono delle sensazioni nuove, belle. L’ultima settimana è stata ancora più difficile, perché ho dovuto lottare con un virus intestinale.” Afflizione che l’ha costretto a ritirarsi a tre frazioni dalla conclusione.
Dopo una vittoria di tappa alla Corsa Rosa, la domanda è d’obbligo: l’ambizione di puntare al bersaglio grosso – la classifica in un Grande Giro – è sogno o realtà? “Adesso non saprei dirlo. Certo, mi piacerebbe. “ E, conclude con una luce nello sguardo “le caratteristiche dovrebbero, comunque, essere adatte.”