Le parole di Edoardo Salvoldi alla riunione delle società juniores del Veneto (CLICCA QUI per rileggere l’articolo) hanno acceso il dibattito sul presente e sul futuro della categoria. Un confronto a cui non si sottrae un grande conoscitore del mondo giovanile, Rino De Candido.
Dopo la parentesi da CT del mondo paralimpico, cosa fa oggi Rino De Candido?
“Collaboro con gli organizzatori della Prova di Coppa del Mondo di Paraciclismo di Maniago e per la realizzazione della 6 Giorni di Pordenone. Poi ci sono altri progetti che si dovrebbero concretizzare a breve…”
Lei è stato Commissario Tecnico della nazionale italiana juniores dal 2006 al 2021, cosa pensa del suo successore?
“Salvoldi è un amico, ci sentiamo spesso e ci confrontiamo. Lui ha certamente una grande esperienza internazionale maturata nel mondo femminile che, però, è molto diverso da quello maschile”.
Come vanno interpretate le parole del CT azzurro?
“Credo che Salvoldi sia un pò esasperato per quanto ha provato lo scorso anno sulla sua pelle. Guardando il mondiale da fuori posso dire che non si era mai vista una nazionale italiana juniores così. In passato magari non abbiamo vinto ma siamo sempre riusciti ad essere protagonisti e a salire più volte sul podio. Credo ci sia un pò di prostrazione per il risultato dello scorso anno. Dal mio punto di vista ci sono tantissime cose che andrebbero corrette, non tanto da parte di Salvoldi, ma soprattutto dalle abitudini dei nostri ragazzi. Ad esempio dovremmo rivedere il mondo di correre, senza paura di attaccare da lontano”.
Oro mondiale nel 2006 e nel 2007 con Diego Ulissi, sul podio iridato con Cattaneo nel 2008, Rastelli e Gazzoli nel 2017, Martinelli nel 2019. Risultati a cui vanno aggiunti quelli ottenuti ai Campionati Europei e nelle prove di Coppa delle Nazioni. De Candido, per tornare a vincere la maglia iridata cosa serve ai nostri juniores?
“E’ un discorso che va suddiviso in due. Se l’obiettivo del tecnico è solo quello di vincere il mondiale su strada allora va individuato un gruppo di 8 atleti. Si corre tutto l’anno a livello internazionale con questi atleti, va alzato il livello dell’allenamento e si preparano gli appuntamenti principali. Se, invece, l’obiettivo è quello di far crescere l’intero movimento juniores, far fare esperienza internazionale a più ragazzi possibile e prepararli al professionismo allora il discorso è completamente diverso”.
E quale deve essere secondo lei l’obiettivo della nazionale?
“Questa è una bella domanda. E’ una scelta che spetta a Salvoldi, o meglio alla FCI. Si può decidere di puntare al titolo in maniera consapevole: voglio vincere la maglia e del resto, compreso del futuro dei ragazzi, non mi interessa. Ma sono scelte che deve fare la Federazione. A me hanno detto che esasperavo i corridori perchè spronavo i miei ragazzi a correre in un certo modo… Però ho guardato il mondiale dei professionisti e tra i convocati azzurri c’erano sette ragazzi che hanno fatto parte del mio gruppo e si sono comportati molto bene in corsa. Significa che si era lavorato nella maniera giusta e che oggi sono dei professionisti di serie A”.
All’estero come si ragiona?
“E’ difficile fare paragoni perchè ci sono altre mentalità e altre realtà. Se si prendono i Paesi del nord come Danimarca e Norvegia loro sono abituati a lavorare con un gruppo ristretto di atleti tutto l’anno, corrono in funzione del mondiale ma a fine stagione i ragazzi, nella maggior parte dei casi, sono finiti. Uno o due fanno strada ma per gli altri non c’è futuro. Francia e Belgio invece lavorano come l’Italia, facendo ruotare i ragazzi, offrendo loro la possibilità di crescere”.
Qual’è la formula vincente?
“Non va dimenticato che Europei e Mondiali sono gare di un giorno. A volte si decidono anche solo per un colpo di reni. Anche per questo l’obiettivo dovrebbe essere la crescita del movimento nel suo complesso”.
Si dice che il ciclismo sia cambiato molto nell’ultimo decennio. Lo sbocciare di fenomeni come Evenepoel, Pogacar, Van Der Poel e Van Aer ha effettivamente portato ad un cambiamento epocale?
“A questi aggiungerei Cian Uijtdebroeks. Questi sono corridori che fanno parte di un mondo a parte. I team World Tour guardano molto agli juniores e di solito non scelgono quelli che vincono troppo tra i giovani, ci sarà un motivo. Sono nate formazioni come il Team Auto Eder dove si concentrano i migliori atleti provenienti da diverse nazioni e si lavora con l’obiettivo di prepararli al professionismo. Questo ha inevitabilmente alzato il livello. Sono cambiate tante cose ma non la maturità e la mentalità che i ragazzi possono acquisire solo con il tempo. Io sono convinto che ci possiamo adattare a tecniche nuove, preparazioni nuove, bici nuove, strumentazioni nuove che consentono di osservare anche il minimo dettaglio ma a fare la differenza sono e saranno sempre le gambe e la testa. E’ su questi aspetti che bisogna lavorare, soprattutto sulla mentalità dei corridori”.
Ma si può essere professionisti a 17-18 anni?
“C’è tanta fretta, si vuole tutto e subito. Non va dimenticato che il primo impegno dei ragazzi a questa età deve essere la scuola. Uno su cento potrà diventare professionista e vivere di ciclismo ma per tutti gli altri serve un diploma. Su questo aspetto dovrebbe fare un ragionamento anche l’UCI che concentra le prove di Coppa delle Nazioni nella prima parte della stagione quando i ragazzi vanno ancora a scuola”.
Si può pensare a percorsi alternativi?
“Certo. Lancio una provocazione: perchè le squadre Continental non si fanno anche una squadra juniores di 12 corridori? Intanto avremmo 12 squadre juniores in più, sarebbero team collegati, guidati in un certo modo e con la giusta mentalità per far crescere i ragazzi in maniera graduale. In Italia oggi a farlo è solo la Work Service ma non è tutelata a sufficienza. Non abbiamo una World Tour ma almeno specializziamoci nella crescita giovani. Poi non va dimenticato che anche i tecnici degli juniores si devono saper rinnovare altrimenti ci si fossilizza. E’ importante restare a contatto con le realtà più importanti”.
Com’è stato per lei il passaggio dalla nazionale juniores a quella paralimpica?
“Questa è un’altra storia, ci sarà tempo per parlarne…”