Lasciarsi alle spalle un 2022 non semplice, ritornando a fare quello che ama di più: prendersi qualche libertà, che fa rima con andare in fuga. La specialità di Alessandro De Marchi, che quest’anno è atteso a un’ulteriore, nuova e stimolante sfida: essere una chioccia per i tanti giovani del Team Jayco AlUla, dov’è approdato dopo le due stagioni alla Israel. Il ‘Rosso di Buja’, che dovrebbe essere al via del Giro d’Italia, si racconta e analizza il ciclismo di oggi, italiano e mondiale, con l’attenzione sempre focalizzata sulla sicurezza dei ciclisti nel nostro Paese: secondo il friulano, è questo l’aspetto più tragico con cui dover fare i conti.
Tra poco si ricomincia: come sta andando la preparazione?
“Bene, siamo a buon punto: tra poco partiremo per il secondo ritiro, l’ultimo primo delle corse. Siamo pronti”.
Dove debutterà?
“Se tutto verrà confermato, in Spagna, alla Valenciana, i primi di febbraio. Credo che faremo il punto della situazione in ritiro”.
In inverno ha cambiato squadra: che ambiente ha trovato al Team Jayco AlUla?
“Una formazione organizzata, ben oliata: si nota subito che ha una storia, anni di esperienza alle spalle. Un sistema funzionante, aspetto che apprezzo sempre. E poi ci sono persone che già conoscevo, mi hanno accolto in modo caloroso: ho sentito di essere benvoluto e atteso. È importante”.
Con che motivazioni guarda alla prossima stagione?
“Principalmente vorrei mettermi alle spalle l’ultima annata un po’ altalenante, non troppo positiva. Sono contento, inoltre, di poter lavorare con un gruppo di giovani, uno dei motivi per cui il team mi ha scelto è perché potrò affiancare il gruppo di giovani che ha creato in questi anni. In certe situazioni, dai ritiri a determinate corse, farò da chioccia, condividerò un percorso coi giovani. L’idea di base è di essere d’aiuto, una guida: una possibilità che mi dà forti motivazioni, una sfida impegnativa”.
Quali sono le date che ha cerchiato in rosso nel calendario 2023?
“In realtà, dobbiamo ancora mettere bene i puntini sulle i. Sembra, proprio per stare vicino ai giovani, che una delle tappe fondamentali dovrebbe essere il Giro d’Italia: per prima cosa vorrei partecipare, cercando di fare bene. Ecco, è questa la prima data cerchiata in rosso”.
Che obiettivi si pone?
“Semplicemente, tornare a fare quello che mi viene meglio: prendermi qualche libertà in qualche gara a tappe e giocarmi le mie carte, quando ne avrò la possibilità. Vorrei tornare a essere competitivo in modo più generale, non a sprazzi, come avvenuto nel 2022. Vorrei avere una stagione piena con un buon numero di corse, tra cui, sicuramente, un Grande Giro. Sarebbe bello farne due: dovessi andare al Giro d’Italia, l’accoppiata probabilmente sarebbe con la Vuelta”.
E a livello generale cosa si aspetta dal 2023?
“Sulla carta, visto un parterre che sembra molto ricco, il Giro d’Italia potrà essere un’ottima gara. Ci sarà uno dei più attesi, Remco Evenepoel, da cui ci si aspetta una stagione di conferma e miglioramento: gli verrà chiesto ancora di più, in maglia iridata forse non sarà così semplice. E poi il Tour, con Pogacar che vuole una rivincita: chissà se Vingegaard sarà pronto a dare ancora battaglia”.
Si discute molto dello stato di salute del ciclismo italiano: lei come lo vede?
“Siamo in forma, potremmo esserlo di più, ma la situazione potrebbe essere anche molto peggiore: un quadro sufficiente per un movimento che probabilmente attende un po’ di rinnovamento e che qualche giovane appena approdato al professionismo inizi a sbocciare. Sono, però, abbastanza ottimista, non amo molto gli scenari drammatici che qualcuno dipinge. Non possiamo avere riferimenti troppo legati al passato, se facciamo paragoni andiamo fuori misura: il ciclismo, oggi, è molto più globale, i competitor sono aumentati. La situazione, lo ripeto, per me non è così tragica. L’aspetto più negativo forse è che fatichiamo ad avere squadre che durino e propongano progetti a lungo termine: probabilmente è questo il vero tallone d’Achille, si dovrebbe lavorare più su questo che sulla ricerca di singoli campioni”.
Quindi, a suo giudizio, servirebbe una squadra di punta?
“Se all’apice della piramide avessimo un team di riferimento, legato al World Tour, probabilmente tutta la filiera ne gioverebbe. Era così ai tempi della Liquigas, potrebbe essere la strada da percorrere: non basterebbe, ma andrebbe nella direzione giusta”.
Parliamo di sicurezza. L’elenco dei ciclisti uccisi sulla strada, purtroppo, continua ad aumentare.
“Forse è proprio questo l’aspetto più tragico, quello più negativo legato al ciclismo italiano. In Italia un ciclista è drasticamente più in pericolo rispetto a ogni altro Paese europeo: siamo quelli che percorrono meno chilometri pro capite, però siamo quelli che muoiono di più. È imbarazzante. È il vero punto debole e si collega a un’altra criticità legata alla cultura del rispetto dell’altro sulla strada: ci manca, e ci pone nella condizione in cui siamo. Dovremmo ripartire da questo, educare l’utente della strada a rispettare chiunque altro è sulla strada, in particolare gli utenti deboli. Fino a quando non lo faremo, non basteranno ciclabili, fanali o altro: sono palliativi, secondo me. Arriverà il momento in cui potranno essere fondamentali, ma siamo distanti: finché non impareremo, tutti, a convivere sulla strada, non sarà una ciclabile a migliorare le cose. Lo dico con dispiacere, da ciclista vorrei che la situazione fosse diversa, ma purtoppo non è così. Sono aspetti culturali”.
Chiudiamo col suo amato Friuli. Che momento vive il movimento regionale?
“Forse non sono così aggioranto sul vero stato di salute del movimento, anche se alle volte mi arrivano o capto informazioni. Abbiamo alti e bassi. A livello giovanile, dai giovanissimi agli allievi, abbiamo spesso società costrette a chiudere per varie difficoltà: non aiuta. Anche a livello di juniores mi è capitato di sentire che molti ragazzi sono costretti a smettere, per mancanza di squadre. Non è forse il momento più roseo, probabilmente anche la federazione dovrebbe trovare strategie per incentivare la creazione e l’esistenza di formazioni che permettano ai giovani di continuare a correre. Sentire di un 17enne costretto a smettere perché dove vive non ci sono squadre è un po’ imbarazzante. All’apice del movimento regionale c’è il Cycling Team Friuli, che probabilmente sta vivendo uno dei momenti migliori della sua storia, dopo anni di sacrifici, non facili. Sono riusciti a dimostrare che fanno le cose a modo, i risultati parlano chiaro: è bello avere come riferimento una realtà del genere, ma c’è da fare molto. Non si può pensare solo all’apice, la base forse è ancora più importante”.