Le parole di Hugo Brenders, team manager della Jumbo Visma Development hanno acceso la discussione internazionale sul futuro della categoria juniores. Uno snodo sempre più centrale nella carriera dei giovani talenti, reso persino troppo importante secondo Julien Thollet, CT della nazionale francese juniores da ben 10 anni.
Sotto la sua direzione sono cresciuti, nelle ultime stagioni, alcuni dei giovani più promettenti del ciclismo internazionale: “In dieci anni la categoria junior è cambiata molto. Dieci anni fa erano ragazzi che si affacciavano al ciclismo internazionale con tanta curiosità e freschezza; oggi ci sono giovani atleti che dispongono già di molte informazioni e che hanno a disposizione dei team strutturati. Di conseguenza è cambiato anche il mio ruolo: ora devo smontare certe loro convinzioni per ricostruirle nel giusto ordine: oggi abbiamo ragazzi 18 anni che pensano di non avere tempo, di dover fare tutto in fretta per diventare professionisti e per questo si perdono alcuni corridori. Io sono convinto, invece, che ci voglia tempo per immagazzinare esperienze, apprendere metodi ed essere così pronti a fare del ciclismo la propria professione”.
Come fa a far capire a questi ragazzi che la loro carriera non finisce a 19 anni?
“Personalmente tendevo a pensare che ci volesse molto tempo per allenare i corridori ma alla fine forse ne abbiamo trattenuti alcuni nelle categorie giovanili che sicuramente erano pronti. Ma questo non ha impedito loro di esibirsi comunque ad alti livelli tra i professionisti. Oggi vedo un ciclismo a due velocità: ci sono corridori che sono pronti ai 18 anni, e per loro è giusto cogliere al volo ogni opportunità. E poi ce ne sono altri ai quali bisogna stare attenti, tenerli d’occhio e dire loro che potranno sbocciare a 20-21-22 anni. Continueremo ad avere elementi come questi. Non dobbiamo farli uscire dai radar e continuare a sostenerli per dare loro il tempo di crescere”.
E come va gestita questa situazione?
“Vanno sicuramente difese le squadre di club locali. E’ giusto che possano tenere tra le proprie fila anche gli atleti migliori per attirare altri ragazzi e far crescere la base. Altre nazioni seguono invece una attività d’elite, riservata a pochi corridori. Dobbiamo vedere come si evolverà la situazione: personalmente non mi piace vedere tutti i migliori riuniti in un’unica struttura: ciò che fa crescere è il confronto. I ragazzi devono lottare tra loro per ottenere un posto in nazionale o nelle selezioni regionali: dobbiamo trovare il giusto equilbrio tra le spinte che arrivano dai team World Tour e il know-how del nostro sistema giovanile”.
“E’ l’internazionalizzazione del ciclismo, il ciclismo francese sta andando bene, con un calendario di gare interessante. Ma dobbiamo tutti stare molto attenti al monitoraggio e al supporto sociale dei corridori. Perché no, vai a vedere cosa succede all’estero, fa sempre bene agli studenti, è educativo. Non ho un parere negativo su questo se il giovane è accompagnato. A livello internazionale, assistiamo alla costruzione di una piramide di squadre con una riserva Junior prima della riserva Espoirs e della squadra Pro, come Cannibal B Victorious, Auto Eder e AG2R Citroën, mentre l’UCI non vuole che gli agenti lavorino con gli Juniores. Ma queste squadre non sono già un modo per attrarre gli Junior? Chiunque può reclutare gli Juniores. Abbiamo team globali, Bahrain, Auto Eder o AG2R, che reclutano corridori in ogni Paese del mondo. La realtà è che gli agenti lavorano già con gli Juniores, anche con le squadre professionistiche. La domanda è: qual è l’obiettivo? Ciò che mi preoccupa è la mancanza di un quadro e di una regolamentazione dell’attività Juniores. In patria, all’interno della federazione francese, abbiamo del lavoro da fare ma soprattutto l’UCI deve vigilare su questa attività perché oggi è un vero e proprio Far West”.
Quali sono le conseguenze di questo Far West?
“Sono favorevole a far crescere il livello verso l’alto ma non è detto che tutti emergeranno. Con questo metodo si sta cercando il giovane fuoriclasse ma non tutti cresceranno allo stesso ritmo: se risucchiamo l’intero gruppo juniores nel programma internazionale che futuro avremo? E’ una domanda che faccio, anche io non ne conosco la risposta”. Si può pensare a delle limitazioni per i team internazionali?
“Sì, credo sia assolutamente necessario che vi sia una regolamentazione a tutti i livelli. Prima di tutto sul piano sportivo, con il carico di allenamenti e gare. E poi a livello scolastico e sociale, quando togliamo da scuola qualcuno che ha 16-17-18 anni, parliamo anche di rispettare l’integrità mentale e fisica del corridore perché a quell’età sono ancora adolescenti. Questo monitoraggio deve essere effettuato da persone qualificate. L’UCI deve regolamentarlo, come fa nel WorldTour, anche negli aspetti finanziari. Tutti questi aspetti devono essere controllati e gestiti dall’UCI”. Anche l’attività delle nazionali andrebbe rivista?
“Sì, dobbiamo ridefinire il nostro calendario e in particolare quello della Coppa delle Nazioni. Nel 2024 gli eventi saranno tantissimi, in quasi tutti i Continenti, con eventi che a volte si sovrappongono. Ci chiediamo quale sia l’obiettivo di questa Nations Cup: oggi non riesco a capire il senso di questa Nations Cup, è un pò una caccia a chi fa più punti. Vincerà la squadra nazionale che completerà il maggior numero di eventi. Devi anche pensare a partecipare a questi eventi. Abbiamo aperto la porta già da tre o quattro anni alle squadre miste, dobbiamo chiuderla e riservarla alle nazionali? La riflessione è aperta in seno all’UCI. Oppure andremo verso un modello WorldTour tra Juniors con squadre brandizzate che si sfideranno tra loro? Ciò che è importante è identificare chiaramente i numeri in ciascuna squadra perché oggi potremmo trovare alcuni esempi di corridori che hanno indossato maglie di squadre miste in modo diverso”.
Che ruolo ha la nazionale secondo lei?
“Le Nazionali hanno un ruolo centrale da svolgere nelle dinamiche di un Paese, devono restare la locomotiva e l’obiettivo da raggiungere per i corridori. Sappiamo anche che la sostenibilità delle squadre professionistiche non è garantita e che possono lasciare un vuoto quando chiudono. Sono dei grandi carrozzoni che quando chiudono i battenti lasciano il deserto. E ricostruire la dinamica di una nazionale non avviene da un giorno all’altro. Anche se questo significa avvicinarsi alle squadre professionistiche come facciamo in Francia. La nostra porta è aperta a chi vuole lavorare con noi”.
C’è un modello da seguire per la selezione dei giovani? Si parla di emulare il Draft della NBA, che ne pensa?
“Il modello ideale potrebbe essere quello della NBA e del suo draft. Lasciano lavorare i tecnici e ad un certo punto arrivano le grandi squadre a fare il “loro mercato” ma fino ai 18 anni lasciano lavorare tutte le strutture. È una pia illusione, ma il modello NBA, che è pur sempre quello di uno sport per spettatori con un modello economico molto potente, è riuscito a regolamentare la formazione dei giocatori senza mettere da parte quelli molto giovani. Nel ciclismo stiamo iniziando ad avere squadre professionistiche molto potenti dal punto di vista finanziario e vogliamo dire loro “lasciamo che il lavoro venga fatto in ciascuna delle nazioni e poi venite a reclutare”. Si potrebbe provare almeno”.