Marcel Kittel si è ritirato dal ciclismo. E così il mondo delle due ruote perde il suo Alain Delon. Perché la bellezza nel ciclismo ci può finalmente stare. Anche l’occhio delle fans vuole la sua parte. Sinceramente il gesto atletico del velocista o dello scalatore ci può stare magari abbinato ad una bellezza esteriore come quella dello stesso Kittel o di Tom Domoulin che non guasta a rendere ancor più spettacolare l’attacco in salita o la volata frenetica. Di corridori in salita ingrugniti, sudati, con smorfie non proprio da putti barocchi ne abbiamo in abbondanza, alla Fabio Aru tanto per intenderci.
Non che la bellezza risolva l’incapacità ciclistica ma te la fa apprezzare ancor più. Insomma non vedremo più sfrecciare sulla finish line il ricciolo biondo e l’occhio ceruleo e angelico di Marcel Kittel nel calore del deserto di Dubai o nell’assolato Tour de France perché il tedeschino non sopportava più la pressione del ciclismo. Le cadute rovinose in più di qualche occasione gli hanno lasciato i segni sul volto o sulle gambe. Perché anche Marcel Kittel cadeva, e come se cadeva. Sentiva come un macigno ormai la pressione del ciclismo che è diventato letteralmente una scheggia impazzita come sport. Marcel Kittel è la punta dell’iceberg che ci sta strappando più di qualche corridore promettente. E si potrebbe davvero fare un lungo elenco. Dai corridori australiani ai belgi e via discorrendo. L’Uci ha imposto un ciclismo schizofrenico al grido di “globalizzazione globalizzazione”. Si corre da gennaio a novembre in ogni parte del mondo. Si parte con l’Australia e si finisce in Cina.
11 mesi di continue pressioni per gli atleti stessi che vivono più sugli aerei che nella vita reale. Sali in aereo, voli di ore, scendi, vai in hotel e via in allenamento. Il giorno dopo la gara, poi riprendi l’aereo e rientra a casa. Spesse volte… quale casa? E poi mettiamo almeno un mese di ritiro all’anno, fra luglio e agosto. Quasi tutti i corridori si ritrovano a Livigno o sul Teide e più che allenamenti sembrano corse vere e proprie dove incontri compagni, avversari, gente a fine contratto o ragazzi che hanno appena staccato il cartellino tra i professionisti e di belle speranze. Allenamenti, corse tirate, corse a tappe, dalla Spagna al Marocco, dalla Cina al Sudafrica o all’Africa interna per finire in Nuova Zelanda.
Ragazzi costretti a stare via lunghi mesi da casa, a vedere, come ha dichiarato Kittel, i figli su Skype. E se l’amore è vero, tra moglie e marito, e tra fidanzati , resiste anche alle distanze oppure succede come accaduto a Davide Cimolai, lasciato dopo pochi mesi dal matrimonio, dalla moglie che gli ha detto : “Sei troppo via da casa”. Il ciclismo spremuto, pressato, corridori che vivono letteralmente in condizioni di sorvegliati speciali, come se fossero ai domiciliari a causa dei controlli. Ogni giorno costretti ad aggiornare il sistema Wada per i controlli antidoping che in molti casi diventano una vera e propria ossessione. Gli “agenti Wada” come agenti delle SS che ti suonano al campanello al mattino alle 6 o alla mezzanotte. O ti piombano in ristorante o alla festa di amici o di compleanno come già accaduto più volte e in qualunque parte del mondo. Persino in vacanza. Mancano gli alani a controllarti e le cellule fotoelettriche e siamo al completo.
Una pressione che sicuramente a questi livelli nessun altro sport riesce ad avere. Per non parlare delle tabelle, dei watt, delle ripetute, degli allenamenti, della dieta, per non sgarrare di un grammo, per non andare fuori peso, costringendo i corridori in molti casi a diventare anoressici. Un peso che il ciclismo europeo fino a 20 anni fa circa, non aveva. Ragazzi costretti ad essere connessi in continuo con i sociali perché così vogliono i responsabili di marketing e comunicazione e gli sponsor. Il sorriso prima di tutto, il tweet per dire anche cazzate, e Strava. Vai, metti su Strava il percorso perché direttori sportivi, team manager, sponsor, procuratori, cicloamatori che ti devono copiare, gli “agenti Wada”, tutti ti devono tracciare…anche quante volte fai pipì. Perché manco pure dietro l’albero puoi fare pipì tranquillamente, in un veloce pit stop dall’allenamento perché arriva lo scemo del cicloamatore di turno che si deve fare il selfie mentre “dai da bere all’albero”.
E poi le corse. Cina, Australia, Africa, Americhe. Perdi il vero valore delle corse e non riesci a capire se la nuova corsa di Romania sia diventata più importante della Milano – Sanremo. Un ciclismo schizofrenico, impazzito, senza soluzione di continuità, compresa la multiudisciplina che se non la fai vieni additato come fannullone. Perché devi andare in pista, su strada, fare ciclocross, bmx, mtb, ciclopalla e capovolte carpiate. Ma è davvero questo il ciclismo che vogliamo e che ci impone l’Uci solo per questioni di soldi? Corridori usati come fazzoletti usa e getta. Una stagione sei alle stelle e la successiva alle stalle. Al grido di “corridore finito” tanti si sono convinti di non avere le doti e sono scesi di sella. Come ha fatto Kittel. E’ sceso di sella e ha detto basta. Qualcuno lo ha criticato dicendo che mica lavorava in fabbrica. Ma forse fare il corridore ai livelli di Kittel era un molto più che lavorare in fabbrica. E poi diciamocelo. Fare il corridore è un mestiere pericoloso. Le ultime morti sulle strade, in gara o allenamento a causa di un investimento, di un infarto o come il giovane belga Bjorg Lambrecht sono quasi all’ordine del giorno. Fatto il funerale e già dimenticato. Nessuno spazio lasciato al silenzio o alle elaborazione del lutto. Corridori diventati solo macchine senza pensieri propri, senza più personalità forti in gruppo come lo era il nostro Moreno Argentin che quando diceva : “non si corre”, non si correva. Corridori sottopagati, che pagano per correre, senza tutele, senza assicurazioni, buttati allo sbando, nella mischia. E’ questo il ciclismo che vogliamo? Tra un pò si dovrà forse elaborare il lutto di un ciclismo che non c’è più e intanto diciamo: “Buona vita Marcel Kittel”…