I corridori alle crono li devi vedere in faccia. Scrutare i loro occhi, i loro sguardi, capire le smorfie, interpretare lo stato d’animo. Leggere nell’anima, oltre gli occhiali “parabolici” che occupano tutta la faccia e con il vetro a specchio cercano di nascondere il vero stato d’animo. Ci aggiriamo tra i pullman mentre i corridori si stanno riscaldando. Concentrati sui rulli. Mentre la gente viene tenuta distante dai cordoncini stesi dai meccanici e dai massaggiatori, ognuno ha il proprio modo di scaldarsi. Per alcuni è una pura formalità, quei 34,2 km senza asperità, da Trento a Rovereto. Per terminare comunque il Giro e intascare qualche premio in denaro che serve sempre. Per altri è un impegno che può decretare la vittoria o meno.
E c’è chi è campione della specialità, da Dumoulin a Dennis a Tony Martin. Per loro la crono è fondamentale, così come per Froome. Chi ascolta nelle cuffiette musica distensiva, chi giocherella con qualche giochino che toglie stress e tensione. I corridori hanno bisogno di concentrarsi e pensare ai chilometri da pedalare. Ma la tensione la vedi, la percepisci al primo controllo della bici, ne primo gazebo che precede il secondo della partenza. Un pignolo Bruno Valcic assieme a Ernesto Maggioni, giudici di altissimo livello, controllano i telai.
I corridori arrivano alla spicciolata. Rohan Dennis è il più concentrato di tutti. Voleva tentare il colpaccio già alla crono di Israele ma ha dovuto attendere lo sbarco in Trentino per intascare la vittoria di tappa. L’uomo più atteso però, dopo la debacle di Sappada è Fabio Aru. Arriva dietro a Valerio Conti. Il corridore laziale ha il casco integrale da crono slacciato all’indietro e fischietta. Anche questo un modo per stemperare la tensione oppure menefreghismo assoluto. Della serie Vada come vada.
Dietro di lui Fabio Aru. No. Ha la stessa faccia di Israele. Le batoste forse servono. E’ concentrato. Per davvero. Rimane un minuto, in silenzio. La folla lo chiama, lo invoca. Lo incita. Gli vuole bene. Chiedono autografi, soprattutto i bambini. E lui si concede. Batte il cinque, dopo il controllo bici, a Enrico Bonsembiante, amico di sempre. Guarda dritto verso il manubrio. Una sfida contro se stesso e per non deludere gli altri e tutti quelli che credono in lui. Mentre i giudici passano la bici al setaccio scambiamo due parole con Paolo Tiralongo, a bordo del Suv della Uae. Segue Fabio Aru, da solo. Gli chiediamo cosa succede a Fabio, veramente. “Non sta bene Fabio – e scuote la testa -. Non è in forma come vorrebbe. Lui ce la sta mettendo tutta. La colpa non è sua. Succede”.
Incalziamo, e con Tiralongo, che abbiamo visto crescere ce lo possiamo permettere:
“Incolpano te Paolo. Di aver sbagliato preparazione, che sei appena sceso di bici, hai fatto il gregario e non puoi già saper allenare un campione del suo calibro appena sceso di sella”. “Meglio che diano la colpa a me – risponde il siciliano da decenni ormai residente a Bergamo -. Fabio è un patrimonio da difendere e tutelare. Ha ancora molto da dare. Lasciamolo tranquillo”.
E con Tiralongo alle spalle, negli oltre 34 cm di crono, Aru dimostra una pedalata più sicura, cadenzata. Alla fine arriverà settimo, a soli 37” da Rohan Dennis, vincitore di tappa e nel lotto dei migliori dieci. Magari la crisi è passata e si guarda con più fiducia al domani.