La maglia iridata è stata ripiegata dentro la valigia, dopo averla ammirata sulla sedia per ore e aver festeggiato alla sera con tutte le nazionali. Forse verrà indossata in qualche corsa in ottobre. Magari nell’ultima internazionale di livello, il Piccolo Giro di Lombardia. Ma nessuno vedrà più sfrecciare nel 2018 la maglia con i colori dell’arcobaleno. In nessuna partenza e in nessun traguardo. Benoit Cosnefroy è il nuovo campione mondiale degli Under 23. Un trionfo sull’arrivo di Bergen. Una sorta di cronocoppie insieme al tedesco Lennard Kamna, già iridato crono junior a Ponferrada e iridato crono domenica a Bergen con i professionisti della Sunweb, squadra World Tour dove l’atleta corre. Cosnefroy corre anch’egli in una World Tour, la Ag2r La Mondiale.
Terzo, sul podio, il danese Michael Carbel Svendgaard che corre in una formazione continental. Come dire di andare in guerra contro chi ha le testate nucleari, con la pistola ad acqua, parlando della nazionale azzurra. Unici “professionisti” a difendere i colori nazionali erano Vincenzo Albanese ed Edoardo Affini. Sarebbero bastati solo loro due al via. Senza nulla togliere all’impegno degli altri tre della pattuglia guidata dal cittì Amadori. Forse ci sarebbe stato bene pure qualche altro giovane professionista italiano, che milita in una World Tour.
LE ORIGINI DEL TRACOLLO – Da tanto si parla di regolamentare la categoria under23 ed elite in Italia, partendo dai team e a cascata ovviamente alle corse. Bocciato il progetto, almeno temporaneamente, voluto dal settore tecnico nazionale, di alzare il livello delle corse in qualità ed organizzazione, dando un manto di serietà e internazionalizzazione, ci si ritrova a dover portare Vincenzo Albanese, professionista con la Bardiani ma ancora under23 ed Edoardo Affini, corridore mantovano che ha preso la valigetta e si è trasferito in Olanda per assaporare il vero ciclismo, quello che si corre oggi. Non il ciclismo “vintage” che tanto va di moda in Italia. Che ci sia una anomalia nel mondiale under23 è fuori di dubbio. Ne carne ne pesce. O per lo meno è quello che percepiamo in Italia. Dove noi continuiamo la tradizione ortodossa dei dilettanti quando invece il mondo è cambiato.
Abbiamo avuto Galileo Galilei che ha trasformato il mondo, ma noi siamo ancora l’Inquisizione che lo aveva condannato di eresia. Insomma si gli eretici siamo noi che procediamo imperterriti verso la catastrofe. Si continua a credere che le corse, come accaduto qualche giorno fa, di 128 chilometri, tra i dilettanti, siano prove da mondiale. Si continua a credere che qualche tratto di strada di campagna sia la Parigi Roubaix o la Liegi. Si continua a credere che chi vince più di una corsa in tracciati che sono sempre gli stessi, anche se cambia il nome del santo o della festa, sia un campione. E poi Bergen mette di fronte la nuda e cruda realtà.
Sul podio corridori abituati tra i professionisti, in fuga persino Garcia Cortina, che poche settimane prima aveva portato a termine una Vuelta in grande forma. Da noi si corre nelle gare dei sacchi, come molti le chiamano, show sul palco e in corsa, miss più o meno svestite, cesti di fiori, salami, e coppe. Ma alla fine, in campo internazionale, dobbiamo alzare bandiera bianca. Ci si è provato in tutti i modi a dar vita alle Continental. Progetto naufragato.
PORTE CHIUSE – Nessuno aveva capito a fondo cosa farne delle continental. Nessun passaporto biologico, in Italia, corridori a fine carriera e che tra gli under23 o élite non avevano più spazio o respinti dal mondo dei professionisti. In molti casi vere e proprie armate brancaleone, senza compensi agli atleti, con corridori del primo anno tra gli under23 presi per tappare buchi o costretti dal regolamento ma senza alcun tipo di interesse di crescita e valorizzazione. Le Continental, affare completamente differente all’estero, dove vengono davvero considerate l’anticamera alle Professional o alle World Tour. Squadre che si confrontano con i professionisti, in gare vere, e con la serietà opportuna che si dovrebbe avere nell’affrontare il ciclismo come lavoro e non più come divertimento.
Resta l’anomalia che nel mondiale under23 corrano atleti che militano nel World Tour. Ma siamo sicuri che oltre i nostri ristretti confini, bloccati dalle Alpi, gli altri la pensino allo stesso modo? Perché per Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia e via dicendo il ciclismo è quello. L’under 23 che sta crescendo, che non può affrontare da subito percorsi impegnativi o gareggiare in corse a tappe di livello altissimo, nel frattempo si cimenta nelle gare di seconda fascia e tra queste il mondiale under23.
Resta il problema della maglia, abituati come si era a vederla correre tra i dilettanti. Ma solo in Italia si facevano carte false per avere il campione del mondo alla partenza. Così la maglia di campione europeo, sacrificata all’altare delle sagre di paese quando invece avrebbe potuto avere respiro internazionale. Perché gli stranieri, da una maglia europea o iridata comunque ci guadagnano nel farla girare. In visibilità e anche interessi economici. Noi purtroppo non siamo più in grado di far fruttare le nostre capacità. E trasformarle in concretezza. Prova ne sia che non abbiamo manco una squadra World Tour se non quattro team professional che fanno sempre fatica a tirare avanti. E squadre di dilettanti che si contendono la sagra del Perdono ma non una Liegi o una Roubaix.
FORSE… – Forse è giusto così, mantenere il mondiale under23 come banco di prova per i piccoletti che militano nelle squadre maggiori. Forse è giusto così, che gli italiani continuino a prendere schiaffoni fino a quando non capiranno che è arrivato il momento di cambiare invece di gongolare sul motto “siamo noi ad organizzare la miglior corsa al mondo”. Poi ci ritroviamo a fare trentesimi al mondiale a cronometro con corridori che in patria si credono i campioni del mondo. Affini no, con la sua valigetta piena di speranze si confronta con il mondo e con l’Europa. Ma anche su questo ci vuole coraggio. Cosa che a molti corridori nostri manca. Cinque corridori e zero risultati se non il pregevole quinto posto di Albanese, che a differenza di Felline qualche anno fa, primo alteta professionista a correre tra gli under23 nel mondiale (risultato disastroso quella volta, 36 esimo) e con tanto di Gran Rifiuto iniziale, si è messo a disposizione della causa. Albanese ha tirato, ha tentato di andare in fuga, di attaccare ma alla fine si è dovuto arrendere al francese e al tedesco. Perché comunque anche nel mondiale under23 i corridori sono divisi in fasce, world tour, professional, continental e dilettanti… Noi destinati ormai a restare in quarta fascia… tra i dilettanti.
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