La Lega Ciclismo Professionisti ha rieletto se stessa. In un venerdì di metà aprile l’assemblea milanese ha decretato il Ghigo Bis. E ormai Ghigo è abituato ai bis. Prima come presidente della Regione Piemonte ora come Presidente Lega Ciclismo Professionisti. In un ciclismo italiano che non può più vivere nell’immobilismo. Perché ora è il momento di agire.
APPENNINO SENZA WORLD TOUR – E lo dice chiaramente l’ordine d’arrivo della Roubaix, dove un italiano bisogna cercarlo con il lanternino; dove un Bettiol al Fiandre sembra il detto che “una rodine non fa primavera”.
E dove soprattutto un Giro dell’Appennino non può avere assolutamente al via, solo sei squadre professional e sedici team continental. Una corsa per dilettanti praticamente con sei squadre professionistiche, se proprio vogliamo ribaltare la questione.
Il ciclismo professionistico in Italia sta diventando in pratica come un Re senza regno, ci sta il castello ma non ci stanno attorno sconfinati territori sui quali comandare e governare. Dino Buzzati scrisse il Deserto dei Tartari come fosse una parafrasi dell’attesa. Nelle lunghe notti al Corriere della Sera in attesa delle notizie che non arrivavano. Il romanzo scritto dal giornalista bellunese è ambientato in un paese immaginario. La trama segue la vita del sottotenente Giovanni Drogo dal momento in cui, divenuto ufficiale, viene assegnato come prima nomina alla Fortezza Bastiani, molto distante dalla città. La Fortezza, ultimo avamposto ai confini settentrionali del Regno, domina la desolata pianura chiamata “deserto dei Tartari”, un tempo teatro di rovinose incursioni da parte dei nemici.
Tuttavia, da innumerevoli anni nessuna minaccia è più apparsa su quel fronte; la Fortezza, svuotata ormai della sua importanza strategica, è rimasta solo una costruzione arroccata su una solitaria montagna, di cui molti ignorano persino l’esistenza. E appare così il ciclismo italiano. Una Fortezza un tempo imponente e dominante sul nemico, il ciclismo d’oltre confine, che ora non domina più nulla, arroccato su se stesso.
IL GRIDO D’ALLARME – Ci ha provato Gianni Savio a dare la sveglia all’assemblea della Lega Ciclismo Professionisti. “Se continuiamo così moriamo tutti – ha sottolineato il team manager torinese a margine della rielezione praticamente senza candidati alternativi -. Non possiamo più supinamente subire le decisioni dell’Uci che passano da troppi anni sopra le nostre teste, sopra il ciclismo italiano che ha fatto grande questo sport. Non possiamo far cancellare il mondo professional. Certo, ci hanno promesso un circuito tutto nostro. E’ esattamente questo l’intento dell’Uci. Farci implodere da soli. Farci affogare nei nostri circuiti provandoci dell’ossigeno delle wild card, delle partecipazioni ai grandi giri. Cosa possiamo poi raccontare ai nostri sponsor? Certamente per noi, ad esempio, la vittoria di Vendrame al Circuit de La Sartre vale tantissimo. Ma se poi non possiamo trasformare questo patrimonio in partecipazioni a manifestazioni del circuito superiore, del Wolrd Tour, pur non avendo la possibilità di mettere in cantiere un team da 30 milioni di euro, che ne sarà di noi? Io ho cercato di ribadire i problemi del nostro ciclismo, in sede di assemblea, ma dobbiamo scendere in campo tutti, dobbiamo fare la voce grossa. O rischiamo di scomparire tutti e buttare all’aria un patrimonio di atleti, di sport, di gente, di personaggi che hanno portato il nostro ciclismo a fare grande l’Italia. Speriamo che l’assemblea del ciclismo professionistico la capisca a chiare lettere ed Enzo Ghigo batta i pugni sul tavolo dell’Uci per far ripartire il ciclismo nostrano. Del resto io non ho problemi. Dovessi chiudere l’esperienza Androni andrò a fare il tecnico di una nazionale sudamericana. E qualcun altro si tirerà su le maniche. Io per il ciclismo ho fatto sempre tanto”.
Resta il fatto che all’Appennino ci sarà la nazionale italiana, sei, solo sei team professional e sedici continental. Lo possiamo ancora chiamare ciclismo professionistico?
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